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L’androginia, ovvero la potenza perduta dell’origine. Approssimazione del mito platonico. (III)

L’androginia, ovvero la potenza perduta dell’origine. Approssimazione del mito platonico. (III)

Nel succedersi degli interventi contenuti nel Simposio, quando Aristofane prende la parola lo fa per deprecare, anzitutto, il fatto che gli uomini non si rendono davvero conto della potenza di Eros. Per lui il problema sulla considerazione di eros si concentra sul mancato riconoscimento di questa potenza che, ce ne renderemo conto a breve, altro

Nel succedersi degli interventi contenuti nel Simposio, quando Aristofane prende la parola lo fa per deprecare, anzitutto, il fatto che gli uomini non si rendono davvero conto della potenza di Eros. Per lui il problema sulla considerazione di eros si concentra sul mancato riconoscimento di questa potenza che, ce ne renderemo conto a breve, altro non è che quella potenza che nel processo amoroso attrae e “unifica” i distinti. Il mito serve proprio a rendere ragione del perché sia presente nelle diverse relazioni amorose (eterosessuale e omosessuale) questo tendere ad una unità fisica e psichica ma soprattutto a spiegare perché tale tensione non sia affatto una tensione artificiosa o posticcia ma, al contrario, sia inscritta radicalmente nella dinamica amorosa. Sin dai tempi di Omero, le relazioni amorose obbedivano a una dinamica precisa, affatto fisiologica: l’eros è una forza che afferra l’individuo rendendolo soggetto di desiderio (eros o hìmeros) e lo fa agendo sul suo petto (stèthos) o diaframma (phrènes), sedi del sentimento amoroso, in modo da rendere possibile l’èramai, il desiderare, qualifica propria dell’èrastes, dell’amante. Non è possibile alcun atto sensuale o sessuale senza l’attivarsi di questa dinamica di origine divina, non c’è Afrodite senza Eros, si potrebbe dire. Allo stesso modo non ci sarebbe generazione senza atto sessuale, cioè senza l’azione primigenia di Eros. Da qui l’importanza del nostro mito come spiegazione di tutto questo.
Così secondo la lettura mitologica. Un tempo la natura umana si presentava molto diversa da oggi, un tempo nel quale l’androginia costituiva un tertius genus accanto all’uomo e alla donna. Anticamente […] la nostra natura non era la stessa di ora, ma differente. Anzitutto, invero, i generi dell’umanità erano tre, e non due – come adesso –, il maschio e la femmina; piuttosto c’era inoltre un terzo genere, partecipe di entrambi i suddetti, di cui ora rimane il nome, ma esso, come tale, è scomparso. A quel tempo infatti l’androgino era un’unità, e partecipava, per aspetto e per nome, di entrambi, il maschio e la femmina. Come dice il testo, questa partecipazione al maschile e al femminile non era solo nel nome, misto appunto di ανδρός e γυνή, ma anche nell’aspetto che Platone, per bocca di Aristofane, si ferma a descrivere. Si tratta di una fisionomia anch’essa doppia e rotonda per poter accogliere in sé questa duplicità. La forma di ogni uomo era, tutta quanta, arrotondata, con il dorso e i fianchi disposti in cerchio; ciascuno aveva quattro mani, e gambe in numero uguale alle mani, e, sopra un collo tornito circolarmente, due volti, in ogni punto simili; aveva poi un’unica testa per entrambi i volti, situati l’uno all’opposto dell’altro, e quattro orecchi, e due organi genitali, e tutte le altre parti, secondo ciò che si potrebbe raffigurare partendo da queste.
Seguendo le indicazioni del testo ci potremmo raffigurare l’androgino grosso modo così:

Simposio 3 terzo                               Simposio 2 terzo

Il punto decisivo del testo è però un altro, ovvero il concentrato di potenza originaria che si addensa nella figura degli androgini “terribili per il vigore e la possanza”, a tal punto pieni di potenza che osano riproporre l’impresa che fu dei Titani, ovvero espugnare l’Olimpo degli dei per destituirli ed impadronirsene. La pianificazione di un progetto di tracotanza, di hybris. Ed è per questo che Zeus, con l’aiuto di Apollo, decide di depotenziare la genia androgina tagliandoli esattamente a metà. Ciò detto [Zeus] tagliò gli uomini in due […] e man mano che tagliava qualcuno, ordinava ad Apollo di rovesciare verso il lato del taglio il volto e la metà del collo, perché l’uomo, contemplando la propria sezione, fosse più moderato, e comandava di risanare tutto il resto.
Questa la soluzione/punizione del padre degli dei, alternativa alla completa distruzione. A certa estinzione, però, sarebbero andate le metà dei primitivi androgini per via del fatto che, immediatamente dopo, questa divisione, ogni metà cominciò a cercare la sua corrispondente bramando la perduta unità. Allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna metà, bramando la metà perduta che era usa, la raggiungeva; e avvincendosi con le braccia e intrecciandosi l’una con l’altra, per il desiderio di fondersi insieme, perivano di fame e, anche per il resto, di inazione, perché non volevano fare nulla l’una separata dall’altra.
L’unione era tentata, ma impossibile a realizzarsi. Dopo il taglio, infatti, Apollo aveva posto i genitali di ciascuna metà all’esterno del corpo, diametralmente opposti al luogo in cui oggi si trovano sicché “generavano e partorivano, non già gli uni verso gli altri, ma sulla terra come le cicale”.
Mosso a pietà Zeus escogita un altro artificio: spostando i genitali sul davanti stabilendo in tal modo sia un modo diverso di generazione nel caso di metà di sesso diverso sia una “sazietà di congiunzione” nel caso di metà dello stesso sesso. Da un tempo così remoto, dunque, è connaturato negli uomini l’amore degli uni per gli altri; esso ricongiunge la natura antica, e si sforza di fare, di due uno, e di guarire la natura umana. Ciascuno di noi è, dunque, un complemento di uomo, in quanto è stato tagliato […] da uno in due: ciascuno, dunque, cerca sempre il proprio completamento.
Francesco Contento

Testi di approfondimento:
ZOLLA E., Incontro con l’androgino. L’esperienza della completezza sessuale, Como 1995;
REALE G., Eros demone mediatore, Bompiani, Milano 1997;
CALAME C. (ed.), L’amore in Grecia, Roma-Bari 2006;
GALIMBERTI U., Le cose dell’amore, Milano 2004 (in particolare pp. 149-155)

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