Oggi i riflettori di ArtInMovimento Magazine sono puntati su Michelangelo Nari. Dopo averlo scoperto e a apprezzato nel musical Forza Venite Gente al Teatro Alfieri di Asti, in cui vestiva i panni di Frate Francesco, siamo riusciti a intervistarlo.Un artista poliedrico, classe 1982, laureato in psicologia e “abile” nel canto e nel teatro, ha all’attivo un CD, Vous
Oggi i riflettori di ArtInMovimento Magazine sono puntati su Michelangelo Nari.
Dopo averlo scoperto e a apprezzato nel musical Forza Venite Gente al Teatro Alfieri di Asti, in cui vestiva i panni di Frate Francesco, siamo riusciti a intervistarlo.
Un artista poliedrico, classe 1982, laureato in psicologia e “abile” nel canto e nel teatro, ha all’attivo un CD, Vous permettez, Aznavour? ed è impegnato contemporaneamente in tre produzioni: Caino e Abele, Shrek e Forza Venite Gente.
Vediamo cosa ci racconta…

Michelangelo, dalla tua biografia si legge che, ascoltando Belle, nella versione francese di Notre Dame de Paris, hai capito che quello che avresti voluto fare nella tua vita era cantare o comunque fare teatro. Oggi, ascoltando quel brano che ha una tessitura complessa di circa due ottave piene ed è infatti cantato da tre protagonisti del musical, cosa avverti?
È stato un colpo di fulmine, probabilmente il mio primo vero innamoramento, la fiammella dalla quale è scaturito tutto. Avevo 16 anni e non avevo mai pensato alla musica o al teatro come a un lavoro, e forse nemmeno a una passione particolare. Io volevo fare il tennista, pensa! Quel brano mi ha fatto vibrare in un modo strano, mai avvertito prima, come uno gnocco allo stomaco piacevole e doloroso, e ho pensato quanto sarebbe stato bello poter dare ad altri la stessa sensazione che sentivo in quel momento. Ancora oggi canto spesso questo e altri brani di “Notre Dame de Paris” nei miei concerti, e ogni volta torno a quelle sensazioni, come quando rivedi una vecchia fiamma per strada dopo tanto tempo e hai un tuffo al cuore.


Può descriverci brevemente i momenti più salienti della tua vita artistica e segnalare gli incontri che hanno condizionato di più il tuo percorso artistico?
Il mio percorso è stato abbastanza inusuale, con tante esperienze diverse, e sono arrivato al mondo del lavoro piuttosto tardi. Infatti, il mio primo musical importante è arrivato a 30 anni. Dopo quel colpo di fulmine cominciai a studiare canto in Liguria, senza frequentare accademie particolari. Volli laurearmi in Psicologia a Milano, continuando a studiare canto e recitazione privatamente, esibendomi dove potevo e facendo concorsi per voci nuove. Nel 2006 cantai un brano in francese dedicato alla famosa testata di Zidane ed inaspettatamente questo pezzo divenne disco d’oro e n. 2 in classifica. Mi fa sorridere pensare che la mia voce sia arrivata in alto grazie ad una testata!
Ma l’incontro decisivo è stato nel 2008 con due insegnanti americani, Rob Seible e Kimberle Moon. Mi hanno proposto di seguirli per un periodo negli USA, studiare con loro e aiutarli nel loro insegnamento con i ragazzi: oltreoceano mi sono avvicinato al musical, ho preso maggiore consapevolezza di ciò che ero a livello vocale e interpretativo, e una volta tornato in Italia ho cominciato a fare provini e a lavorare soprattutto nel mondo del musical… Ed ora eccomi qui.


Quanto la laurea in Psicologia è funzionale al tuo percorso e perché? Che strumenti ti ha fornito?
Moltissimo, sotto tanti punti di vista. Era il piano B, fortemente voluto dalla mia famiglia, che era del tutto estranea al mondo musicale. Anche se poi non ho mai usato quel titolo professionalmente, sono contento di averlo conseguito: studiare Psicologia mi ha dato strumenti importanti per guardarmi dentro, ascoltare e capire meglio me stesso e le persone che ho intorno.
Essendomi laureato in Psicologia del lavoro, ho sviluppato anche un occhio più attento alle dinamiche nei gruppi, e le compagnie teatrali sono quasi famiglie, in cui tanti rapporti sono amplificati e vanno gestiti al meglio. In più, studiare Psicologia mi ha insegnato a chiedermi sempre il “perché” di un comportamento o di un atteggiamento. Questo è prezioso anche sul palco: quando costruisco un personaggio, capire la sua storia e le sue emozioni passa proprio attraverso quella ricerca.


Anche dal palco, e successivamente confermato nel momento dell’incontro vis-a-vis col pubblico, arriva subito la purezza della tua anima e l’umanità della tua persona. Come questi aspetti di te dialogano in un mondo, come quello dello spettacolo, costellato spesso da logiche poco chiare e da iniquità di diverso genere?
Ti ringrazio intanto per quello che hai decodificato di me! In Forza Venite Gente abbiamo ormai questa prassi consolidata dell’incontro con il pubblico dopo lo spettacolo: è un momento che amo molto, perché c’è davvero uno scambio di energia, di sorrisi e le persone ti restituiscono ogni volta qualcosa di diverso, un calore speciale e indescrivibile… un abbraccio, un complimento, una parola gentile. Te lo dico in tutta sincerità, è sempre emozionante.
Io non amo la parola “artista”, specie quando viene usata per esaltare l’ego, ma credo fermamente che in questo ambito la parte umana non possa prescindere da quella professionale. In sintesi, secondo me, non si possono esprimere emozioni vere e autentiche se non si è, in primis, una buona persona. Personalmente cerco di coltivare nella mia quotidianità l’aspetto più umano, di guardarmi dentro con serenità e di cercare “oltre” elementi che possano arricchirmi come persona, e provo ad usare queste “cose” quando sono in scena. Certo, le logiche del mondo dello spettacolo non sono sempre trasparenti e limpide, lo sappiamo bene, ma voglio credere che, a lungo termine, l’essere puliti paghi sempre.


Aver fatto il corista è stata una scelta fondamentale per crescere professionalmente o ha solo rappresentato una questione di opportunità o di gavetta dovuta?
È stato un passaggio importante a livello tecnico, ed ha rappresentato anche il mio primo contatto col mondo del lavoro. Il mestiere del corista è difficilissimo, spesso più complesso di quello del solista: sei come uno strumento musicale, devi essere al servizio del cantante principale, con grande precisione e pulizia, e la parte interpretativa va lasciata da parte. Sicuramente mi ha insegnato tanto. Oggi mi capita ancora di fare qualche esperienza live, come negli scorsi mesi qualche data estiva del tour di Amedeo Minghi, e stabilmente lavoro in studio di registrazione, come corista o nel doppiaggio cantato: è un altro linguaggio rispetto al teatro, saperli padroneggiare entrambi ti dà un’arma in più da usare poi nel lavoro.


Al momento sei impegnato professionalmente su più fronti. Caino e Abele, Shrek e Forza Venite Gente. Tre musical molto diversi dall’impatto su di te molto differente, credo. Riusciresti a dirci su quali corde di te lavora e cosa stimola ognuna di queste produzioni?
Nella scorsa stagione ho potuto lavorare in queste tre produzioni molto diverse: è stato molto bello e sfidante.
Ovviamente il focus è stato su “Forza Venite Gente”, in cui, dopo due stagioni da “Diavolo”, sono stato “promosso” al ruolo del protagonista San Francesco. Ho cercato di dare una mia lettura del ruolo: quando si parla di un Santo è molto facile cadere in un tono più semplicistico e quasi stucchevole, in cui rappresentare solo la parte del buono, e non volevo essere la brutta copia di chi mi ha preceduto in questi 44 anni di repliche. Il mio Francesco è un uomo, con le sue fragilità, rigidità, desideri e dubbi; è attratto inspiegabilmente da ciò che è oltre il terreno, ma vive anche il conflitto generazionale col padre, cresce tra agi e privilegi e ha il coraggio di rinunciare a tutto, ma sempre col sorriso dato dalla convinzione e dalla fede. Ho cercato di esprimere proprio questo, la gioia nel seguire il proprio percorso, per quanto difficile.
Caino e Abele racconta la grande “ballata“ del Bene e del Male nella storia dell’uomo, attraverso varie sfaccettature, e anche i personaggi che interpreto sono sempre il lato bianco della storia. Mi trovo a constatare che sono quasi sempre stato “il buono” negli spettacoli che ho fatto: dall’innocenza di Abele fino alla speranza di un immigrato dei giorni nostri, passando per l’amore puro di Romeo. È stato un modo per esplorare sfumature diverse di uno stesso tema.
Shrek, invece, è totalmente un altro mondo, favolistico e sopra le righe; interpreto Lord Farquaad, il cattivissimo e minuscolo sovrano di Duloc. Lì mi sono divertito un sacco a giocare con la voce, tra toni melliflui ed isterici, e la fisicità che porto in scena: pensa che recito sulle ginocchia e alla fine delle repliche avevo i calli! Mi ha aiutato a rendere qualunque atteggiamento comico e grottesco. È stato davvero divertente… in fondo il nostro lavoro ci insegna a “giocare” con i personaggi, no?


Mi sembra di aver capito che il tuo sogno è cantare. Il musical è un veicolo ottimale che hai scelto o un bel ripiego per permetterti di esprimerti?
Sono sincero: agli inizi non avevo mai pensato al musical, neanche conoscevo bene che cosa fosse. Ma, esperienza dopo esperienza, mi sono reso conto che è il mondo in cui la mia vocalità e il mio stile interpretativo si esprimono meglio. Non essendo un danzatore, mi sono naturalmente orientato verso spettacoli che valorizzano soprattutto il canto e la recitazione, e lì ho trovato la mia strada. Allo stesso tempo, continuo a spaziare anche in altri contesti, come cantante puro o come cantante-attore: mi piace misurarmi con più linguaggi espressivi e in più contesti, così da tenere il mio essere costantemente in una continua sollecitazione.


A tuo avviso, qual è la situazione del musical in Italia? Nonostante siamo lontani anni luce delle produzioni londinese o americane, noti dei miglioramenti in termini di produzione e allestimento?
C’è una differenza a monte, in termini culturali e di formazione, già dalla tenera età. Negli Stati Uniti si studiano le performing arts a scuola, ed è quindi più naturale considerare questo un vero lavoro che richiede impegno, costanza e disciplina. In Italia il cammino è diverso, ma ci sono sempre più accademie e pian piano anche l’interesse del pubblico sta crescendo.
Purtroppo tante produzioni sono costrette ad ingaggiare il nome famoso per richiamare le persone a teatro, anche se “Forza Venite Gente” è la dimostrazione che con un titolo forte non serve per forza un protagonista famoso per riempire i teatri. Sono convinto comunque che la qualità stia crescendo, ma serve forse uno step ulteriore: più budget e coraggio da parte delle produzioni, maggiore consapevolezza da parte del pubblico e più senso critico dei giornalisti. Come ti dissi, non leggiamo così spesso recensioni accurate come la tua.


Se un giovane volesse intraprendere la carriera come cantante di musical, quale percorso formativo gli consiglieresti? Ci sono scuole di formazione, definibili eccellenze, in Italia?
In Italia ci sono moltissime scuole valide, ma non avendone frequentata nessuna, non mi sento di consigliarne una in particolare. Penso sia giusto conoscerle, provare ad entrare e capire in quale realtà le proprie predisposizioni vengono valorizzate di più.
Le Accademie sono preziose e fondamentali, ma la formazione non si esaurisce lì. Serve il lavoro sul campo, lo studio continuo, la capacità di lavorare in gruppo in una compagnia. E soprattutto la disponibilità a mettere un po’ da parte l’ego, per essere davvero al servizio del personaggio e delle emozioni autentiche da trasmettere.


Potresti approfondire il progetto Vous permettez, Aznavour? che ha previsto, nella sua conclusione, la realizzazione di un CD e di uno spettacolo teatrale?
È un progetto a cui tengo tantissimo, nato durante il periodo del Covid. Sono per metà francese, anche se quella parte della mia famiglia non l’ho mai conosciuta. Però parlo questa lingua fin da bambino e sono sempre stato attratto dalla dolce malinconia delle canzoni d’oltralpe. In casa riecheggiava poca musica, ma ricordo Brel, Piaf, i cantautori liguri, che hanno molto in comune con il mondo francofono, e naturalmente Aznavour.
In quel momento di stasi, data dalla pandemia, sentivo il bisogno di ritrovare qualcosa che mi facesse sentire totalmente “a casa”; era come se, a forza di spaziare in tutti i vari mondi musicali in cui lavoravo, stessi perdendo un po’ il contatto con ciò che davvero mi appartenesse. I brani di Aznavour, che ho inciso nel disco e porto in scena nello spettacolo teatrale, rappresentano per me diverse anime di ciò che sento di essere. Sono canzoni da chansonnier, teatrali, che raccontano una storia e danno voce a personaggi con un carattere preciso. Mi piace pensarle come quadri impressionisti, dai contorni un po’ sfumati, in cui ognuno può ritrovare piccole stagioni di sé.


Per Billy Elliot danzare era elettricità, mentre per te, Michelangelo, cantare e recitare cosa sono?
Sono semplicemente la mia linfa vitale, ciò a cui ho dedicato tutte le mie energie da quando avevo 16 anni. Metto sempre il canto un gradino sopra alla recitazione: ho “bisogno” di uno spartito e di note per esprimermi al meglio. Nella mia vita, anche personale, la parola d’ordine è CONDIVISIONE. Ecco, trovo che la musica e il teatro mi consentano di tirar fuori la parte più vera e profonda di me e di metterla a disposizione di chi mi ascolta, perché ognuno possa provare un’emozione autentica.

Secondo Beethoven, Ogni vera creazione d’arte è indipendente da colui che l’ha realizzata, più potente dell’artista stesso e ritorna al Divino attraverso la sua manifestazione. In questo è un tutt’uno con l’uomo: che è testimone dell’espressione del Divino in sé. Cosa pensi di questa riflessione e che posto ha la spiritualità nella tua vita da artista?
Con il tempo, la spiritualità è diventata importante per me. Ti ho detto che non amo la parola “artista”, e non mi definisco tale: gli Artisti, quelli veri, sono coloro che lasciano un segno nella storia dell’uomo e sì, sono sicuramente un’espressione del Divino, in qualunque forma vogliamo pensarlo. Io cerco semplicemente di essere un uomo che dialoga con l’Universo, nella cui energia credo profondamente. Ciò che scrivo, che canto, che porto in scena, è un modo per esprimermi e per suscitare nell’altro qualcosa di bello. Credo che se tutti ci mettessimo un po’ di più in ascolto di noi stessi, dei messaggi e delle emozioni che l’Universo ci porta, tante cose negative della nostra epoca non ci sarebbero.


La tua vita artistica ti permette di avere una vita sentimentale o relazionale?
Mi rendo conto che, al di fuori, ci sia spesso diffidenza nei confronti di chi fa il mio lavoro: “fai l’attore, sei sempre in giro, non avrai mai tempo per una relazione!” In realtà non è così, conciliare le cose è assolutamente possibile. Certo, ci vuole una persona che sappia comprendere ed accettare le dinamiche del mio lavoro, e nello stesso tempo a me spetta il compito di “rassicurare” chi non fa parte di questo mondo, condividendo e rendendo partecipe l’altra metà, e cercando comunque di Esserci, al di là del tempo o della distanza. Ho avuto relazioni lunghe e importanti, attualmente sono serenamente single, ma non mi dispiacerebbe affatto trovare quel Qualcuno con cui guardare avanti e costruire un futuro. Ho imparato ad affidarmi a ciò che accade, restando aperto ma senza troppe ansie né aspettative… Penso che anche nella ricerca dell’altra metà del cielo questo sia l’approccio migliore… Il tempo dirà se ho ragione o no!
Annunziato Gentiluomo

















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