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Perfetti Sconosciuti. L’eclisse. Una cena tra sette amici. Vite in rivolta.

Perfetti Sconosciuti. L’eclisse. Una cena tra sette amici. Vite in rivolta.

Il palcoscenico si apre sull’interno di un appartamento, con accurata scenografia: sullo sfondo la cucina, dinnanzi la sala con divano, sedie e tavolo, dietro il bagno nell’angolo sinistro. Gli oggetti di scena reali coinvolgono lo spettatore (il cibo realmente mangiato, la bevanda realmente bevuta). Ecco in scena la trasposizione teatrale in prosa di “Perfetti Sconosciuti”,

Il palcoscenico si apre sull’interno di un appartamento, con accurata scenografia: sullo sfondo la cucina, dinnanzi la sala con divano, sedie e tavolo, dietro il bagno nell’angolo sinistro. Gli oggetti di scena reali coinvolgono lo spettatore (il cibo realmente mangiato, la bevanda realmente bevuta). Ecco in scena la trasposizione teatrale in prosa di “Perfetti Sconosciuti”, tratto dall’omonimo movie del 2016, diretto dallo stesso Paolo Genovese, noto regista romano al debutto nel mondo teatrale. L’altro ieri, nel venerdì sera di San Valentino, per questa rappresentazione, il Teatro Alfieri di Asti ha fatto registrare sold-out.

Marito e moglie si preparano ad accogliere altre tre coppie: marito e moglie sposati da 10 anni con un figlio e una figlia minorenni, una seconda coppia di novelli sposi in cerca del primo figlio e un loro amico di lunga data che dovrebbe giungere con la sua nuova compagna, mai presentatasi.

Lo svolgimento della cena tra i sette amici si sviluppa attraverso un crescendo di pathos che ammalia il pubblico presente in sala per tutti i 90 minuti circa di spettacolo, toccando polarità squisitamente diverse di intrattenimento – dalla risata allo stupore, dall’ilarità alla drammaticità. Buon uso dello spazio fisico e dello spazio corporeo, ma si rivela potente la varietà degli aspetti paralinguistici che conferiscono spessore alla performance attoriale, mai doma e sempre dinamica nello switchare tra tensione dialettiche opposte e complementari.

Nucleo tematico della serata è la partecipazione a un “gioco” collettivo di dubbio gusto: lasciare i cellulari sul tavolo e condividere qualsivoglia messaggio o chiamata in arrivo / entrata con il gruppo presente. Le diverse reazioni iniziali convergono nella condivisione di tale gioco sotto il chiaro della Luna, in una sera di eclisse che permetterà alla luce riflessa del nostro satellite di illuminare con diverse angolazioni i segreti reconditi del nostro animo. Nostro, sì, poiché le paure e le incertezze dei sette protagonisti sono le nostre paure e incertezze. Rappresentano gli aspetti e i pensieri della nostra vita che più ci inebriano e a cui più aneliamo e, parallelamente, dai quali maggiormente cerchiamo di difenderci e nasconderci.

L’alchimia tra gli attori e le attrici – Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Lorenza Indovina e Valeria Solarino – co-costruisce uno spazio e un tempo sospesi, ove il climax crescente dell’emotività, dapprima ilare e goliardico, in seguito drammatico e scabroso, conduce a un incontro – scontro tra i membri delle coppie, dove rimpianti e rimorsi prendono voce in accuse indegne e omertose colpe. Emergono tradimenti di coppia, clichè sulla suocera, stereotipi di genere, discriminazioni omosessuali, diversità di vedute, discontrollo degli impulsi, identità frammentate. Si evince la complessità tout-court della natura umana nel suo dispiegarsi alla vita, la difficoltà di portare in primo piano la propria soggettività laddove lo schermo – the screen – è divenuto protagonista ad interim della nostra vita personale, privatizzando e digitalizzando quegli stessi impulsi e pensieri inenarrabili un tempo prigionieri della nostra mente.

Sino almeno al finale confronto, quando lo spettatore e la spettatrice vengono accompagnati e si illustra loro la trama di equilibri che pervade la vita adulta radicata nel clima socioculturale del XXI secolo: è il non detto a reggere il peso condiviso di una vita, mentre l’onestà affettiva si nasconde, nuda, vergognosa del proprio status di reitta, guardando con malcelata invidia l’apparenza che appara nelle vetrine delle nostre vite artificiali e artificiose.

Il sollievo per lo spettatore da cotanta brutalità giunge quando – a fine cena – l’eclisse termina il suo incanto e le due ore di soprusi psicologici sbiadiscono, scompaiono, si resettano, lasciando la cena come doveva – non come poteva – essere. È un gioco che lacera la carne delle relazioni umane. È un gioco che frantuma la casa interna costruita nel tempo con la propria famiglia. È un gioco che partorisce la vergogna del desiderio.

Nicholas Utelle

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