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Quando il veleno entra in cuffia

Quando il veleno entra in cuffia

La musica come veicolo silenzioso di modelli tossici. E noi, troppo distratti per accorgercene. Sottofondi è la rubrica in cui lasciamo emergere ciò che spesso ignoriamo: suoni, parole, messaggi che ci accompagnano ogni giorno, apparentemente innocui. In questo contributo, la riflessione parte da una canzone ascoltata per caso — e arriva fino al cuore della

La musica come veicolo silenzioso di modelli tossici. E noi, troppo distratti per accorgercene.

Sottofondi è la rubrica in cui lasciamo emergere ciò che spesso ignoriamo: suoni, parole, messaggi che ci accompagnano ogni giorno, apparentemente innocui. In questo contributo, la riflessione parte da una canzone ascoltata per caso — e arriva fino al cuore della nostra disattenzione collettiva.

Sono in macchina con la musica a tutto volume persa tra i monti. Voglio respirare aria buona, riempirmi polmoni e cervello di pensieri sani e rigeneranti.
Lo speaker finisce il suo intervento e parte un brano di un a me sconosciuto. Rimango paralizzata, incredula all’ascolto di ciò che la radio sta trasmettendo. Ma in realtà non è stupore quello che provo. No, perché da tempo ho la certezza assoluta che stiamo toccando il fondo anzi, ci siamo immersi fino al collo. Quello che provo è disgusto. E una profonda preoccupazione. E mi costringo ad ascoltare quel testo fino all’ultima parola per tentare di capire fino a che punto la follia ci sta divorando e perché nessuno alza la voce.
Mi chiedo come sia possibile che in nome della presunta libera espressione “artistica”
(e su questa espressione i veri artisti si staranno rivoltando nella tomba) si permetta la diffusione di canzoni che glorificano e banalizzano la violenza, in particolare contro le donne. E non stiamo parlando di provocazione artistica, né di denuncia sociale travestita da linguaggio crudo. No, stiamo parlando di prodotti musicali che inneggiano senza vergogna alla violenza di genere e perfino al femminicidio.
Ogni canzone che inneggia alla violenza contro le donne non è solo un’offesa al rispetto umano, ma rappresenta una ferita aperta nella battaglia ancora lunga, ancora durissima, contro la discriminazione ed il sessismo. È una coltellata culturale in più che si aggiunge alle troppe ricevute da chi ogni giorno lotta per un mondo più giusto, per un amore che non uccide, per una libertà che non lascia lividi.
La musica ha un enorme potere sociale e culturale capace di influenzare le idee, è il linguaggio dell’emozione, è rito collettivo e soprattutto è veicolo di significati, modella pensieri, normalizza comportamenti e lo fa con una forza di penetrazione che la politica, l’educazione e persino la famiglia, spesso faticano ad avere.
In particolare, i giovani, quelli che oggi stanno formando la loro visione del mondo e che cresceranno le generazioni future, ascoltano, assorbono, imitano. E se ciò che assimilano è l’idea che per “blastare” devi picchiare una donna, umiliarla, dominarla, controllarla o eliminarla, allora stiamo allevando carnefici in potenza, stiamo costruendo una società che non sa più distinguere tra ciò che è arte e ciò che è abominio. E quando un’artista sceglie di raccontare o promuovere la violenza sta contribuendo a far penetrare in modo profondo e costante questi messaggi distorti nei cervelli dei più giovani e a normalizzare una tragedia che ogni anno costa la vita a migliaia di donne nel mondo.
Testi farciti di odio, di sessismo, di dominio, di minacce, di volgarità, abbinati a ritmi orecchiabili e martellanti, voci biascicate con intonazioni che imitano il “cringe” ma lo rendono di moda costruendo un’estetica dell’arroganza e del disagio si insinuano in modo vischioso nelle giovani menti in cerca di modelli. E il tutto si trasforma in una maschera da indossare: un’espressione da “duro”, una da influencer, una da chi ce l’ha fatta perché spavaldo, sprezzante e da chi dà voce al suo sentire attraverso la rabbia, l’aggressività, da chi può permettersi di osare, di usare chiunque ed in particolare le donne, da chi è contro tutto e tutti. E in quest’ottica anche il sesso è vissuto con istinto da bestia e praticato solo per sfogare la rabbia ed illudersi di essere il più forte, di essere “top”. E basta ascoltare per essere contaminati, basta ripetere per interiorizzare.
Questo genere di testi non sono innocui, sono strumenti culturali potentissimi, sono esperimenti sociali degenerati che modellano non solo le parole dei ragazzi, ma il modo in cui guardano il mondo e se stessi e la musica ha un impatto profondo sulla psiche e lo testimonia anche la scienza. Masaru Emoto, noto ricercatore giapponese, dimostrò con i suoi esperimenti che le parole, la musica e perfino le intenzioni modificano la struttura molecolare dell’acqua. Confrontando poi i cristalli esposti a musica classica e a insulti verbali, evidenziò trasformazioni nette: armonia da un lato, caos e frattura dall’altro. Parole d’amore e musica classica generano cristalli armonici e bellissimi, parole d’odio, urla e frequenze disturbanti producono forme caotiche, spezzate, sgradevoli. E noi che siamo fatti per altri 70% di acqua, come possiamo pensare di essere immuni a ciò che ascoltiamo continuamente? Quando il messaggio è velenoso lo diventiamo anche noi. Le parole hanno un peso energetico e la musica ne amplifica l’impatto. Non è solo questione di gusto o di libertà artistica è neuroplasticità è risonanza, è biologia. E ciò che i nostri figli ricevono ogni giorno, anche attraverso la musica, modella il loro cervello, le loro emozioni, il loro valore.
Ritengo sia un preciso dovere di una società civile alzare la voce contro queste “forme di arte” dannose all’industria musicale ha la responsabilità di promuovere messaggi positivi, educativi e rispettosi e non per buonismo, ma per evoluzione collettiva.
C’è una differenza abissale tra libertà e irresponsabilità; la prima illumina, la seconda distrugge. La presunta libertà di espressione, che oggi legittima testi carichi di misoginia, brutalità, linguaggi degradanti e allusioni sessiste, stride profondamente con la retorica collettiva che si solleva durante i cortei contro la violenza di genere, lo sfruttamento del pianeta, a favore dell’accoglienza, del rispetto per le minoranze, contro ogni forma di discriminazione.
Sono gli stessi giovani che spesso sfilano per i diritti con cartelli inneggianti all’amore, all’inclusività al rispetto, quelli che poi mettono in cuffia canzoni che raccontano l’umiliazione, il dominio e la conquista come potere e l’insulto come affermazione. Ogni forma di violenza, specialmente quella che colpisce le donne, deve essere denunciata, non celebrata ed è nostro dovere, come esseri umani, come cittadini, come artisti e fruitori dell’arte, dire basta, alzare la voce, denunciare e non restare in silenzio. Ogni canzone che esalta odio e violenza è un atto complice e chi la produce, la diffonde, la monetizza e ha le mani sporche quanto chi quella violenza la compie. Il femminicidio oggi è diventato un sottofondo ricorrente nei notiziari ed è talmente presente da non fare quasi più effetto. È la tragedia seriale che scivola via nella cronaca senza più scuotere, come se ci fossimo assuefatti. Ma il punto è proprio questo, ci si abitua a tutto e ci si modella in modo silenzioso e collettivo su ciò che viene percepito come normale dalla società in un determinato momento. La musica, come ogni forma artistica, ha il potere di sollevare, guarire e ispirare, ma può anche distruggere se veicola modelli tossici e normalizza la violenza, se ridicolizza il rispetto e uccide il senso della relazione sana. La libertà artistica è sacra, ma non può essere un alibi per perpetuare modelli degradanti, maschilisti e autodistruttivi. Diamo spazio a chi usa la propria voce e i propri talenti per guarire, non per ferire. Non c’è più tempo per l’indifferenza.
Il femminicidio non è una canzone da cantare, ma è una battaglia da combattere e vincere e una canzone, non è solo un insieme di quattro parole e due note musicali ma è imprinting ed è la realtà che stiamo contribuendo a creare.
Quali e quanti sottofondi stiamo assorbendo senza accorgercene?

T.M.

T.M.
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