Dei 104 film della lineup ufficiale dell’undicesima edizione del Torino Underground Cinefest, festival del cinema indie ideato dal regista Mauro Russo Rouge, oggi Direttore Generale, diretto dal critico Alessandro Amato, e proposto dall’Associazione Culturale SystemOut, spicca il documentario A Loving Act del regista torinese Riccardo Bianco, in concorso nella sezione corrispondente. Tale documentario, proiettato al
Dei 104 film della lineup ufficiale dell’undicesima edizione del Torino Underground Cinefest, festival del cinema indie ideato dal regista Mauro Russo Rouge, oggi Direttore Generale, diretto dal critico Alessandro Amato, e proposto dall’Associazione Culturale SystemOut, spicca il documentario A Loving Act del regista torinese Riccardo Bianco, in concorso nella sezione corrispondente.
Tale documentario, proiettato al CineTeatro Baretti di Torino, venerdì 27 settembre, alle ore 19.00, fotografa la fine della relazione fra Riccardo, un video maker, e Kata, un’aspirante attrice porno, conosciutisi in un viaggio nello Sri Lanka. La loro storia, che ha termine proprio durante la pandemia del 2020, viene raccontata nello spazio ristretto di un appartamento a Badupest, attraverso una telecamera sempre presente, senza vergogna né censura.
Riccardo Bianco è un dirompente documentarista torinese, che si allontana dai canoni della regia tradizionale e che, per questo suo temperamento artistico, ha richiamato la nostra attenzione.
Nato a Moncalieri, il 9 marzo del 1989, Bianco si avvicina al mondo del documentario, sin da piccolo, seguendo le orme del padre produttore e documentarista. Comincia a prendere confidenza con la camera lavorando, viaggiando e documentando diverse parti del mondo. All’età di ventiquattro anni diventa socio della Euro Film SRL, una società di produzione cinematografica nella quale lavora come regista e produttore. Nel 2017 fonda la Ground Vista Pictures, casa di produzione cinematografica specializzata nella produzione di reportage e documentari. Dirige il documentario Nicu (anno 2015) vincitore dell’Arff di Berlino 2016 ed Official Selection all’Ariano International Film Festival. Negli ultimi anni è stato maggiormente impegnato in riprese e regia di documentari trattanti alcune popolazioni indigene, soprattutto la popolazione Yanomami in Brasile.
Riccardo porta nel mondo documentaristico un occhio giovane, che sperimenta, che rincorre l’adrenalina e la trasmette direttamente allo spettatore. I suoi documentari conclusi hanno tematiche diverse, permettendogli un approccio e adattabilità ad ogni situazione differente. Tra i suoi documentari recentemente realizzati ricordiamo: Sardu Shearing (2010), vincitore del primo premio al concorso Short of Work di Modena del 2013, Hayan’s Land (Filippine, 2016) presente nell’Official Selection all’Ariano International Film Festival e Brucia la sabbia (2018), vincitore del Global Film Festival.
Siamo riusciti a raggiungerlo per confrontarci con lui per approfondire alcuni aspetti del suo A Loving Act. Vediamo cosa ci racconta…
Riccardo, come è nata l’idea di un documentario autobiografico così intimo?
Non è stato un documentario pensato. È stato girato senza renderci conto di quello che stavamo facendo. Dopo mesi dalla separazione con Kata, ho rivisto le immagini e mi sono accorto che raccontavano una loro verità. Così ho deciso di mettere in scena il materiale che avevo esattamente per quello che era, senza abbellirlo o imbruttirlo. Ho accettato di essere presente all’interno delle immagini in totale onestà, superando la vergogna nel mostrare le parti più intime e oscure di me.
Stilisticamente come definiresti A Loving Act e perché?
“A Loving Act” è un “non-film”. È un documento informativo. Una storia che è diventata film solo perché per raccontarla è stata usata una videocamera. Non è intrattenimento, ma immersione. Per me, come autore è stato l’inizio di un nuovo modo di raccontare. Proprio perché non è nato sulla carta con l’idea di essere un film. Non è stato condizionato né da soldi né da tempi di produzione. È solo stato.
A Loving Act è autentico in ogni fotogramma. Questo aspetto nella fase di montaggio il film non ha rappresentato un elemento frenante? Tanto girato è stato escluso dal prodotto finito?
Non è stato escluso troppo materiale. Ovviamente l’elemento frenante è stato il fatto che né io né lei fossimo attori, non è stato facile lavorare con personaggi che erano reali. Occorreva stare attenti, rispettosi e delicati ma allo stesso tempo decisi e pronti ad osare.
Nel documentario presenti un maschile non propriamente Alfa, anzi un maschile che non nasconde le proprie fragilità emotive, un maschile confuso e in balia di ciò che prova. Appari super innamorato e, in quanto tale, naturalmente debole rispetto all’oggetto del sentimento. Rivedendo riconosci le mie considerazioni?
Sì, il Riccardo presente nel film era totalmente questo. Non nascondevo niente di quello che provavo, anzi, lo esternavo totalmente, senza impormi dei limiti, perdendo a volte il controllo.
Dopo un anno di tentativi, A Loving Act raggiunge il grande schermo, grazie al Torino Underground Cinefest ed è proprio nella tua città che ci sarà la prima mondiale. Come ti senti rispetto a questo “moto”?
Sarebbe stato più semplice mostrare un film così intimo in una città straniera, dove il pubblico non mi conosce. Invece la prima mondiale sarà nella mia città natale, dove tra gli spettatori non ci saranno solo sconosciuti, ma ci saranno anche persone che mi conoscono. Questo rende ancora più onesto il mio lavoro. Non sarò visto semplicemente come artista, ma mi metterò a nudo davanti a persone che potrebbero anche cambiare idea su di me una volta visto il film.
Cosa consigli a chi vuole vederlo?
Consiglierei di provare a sedersi in quell’appartamento con noi e fare quello che ho fatto io, cioè essere spettatore di me stesso. Provare a ricordarsi che niente è stato programmato, che le scene che si vedono sono autentiche, anche quelle che sembrano più programmate, così da permettersi di vivere in prima persona la stessa esperienza che abbiamo vissuto io e Kata.
Cosa ha attivato in te l’esperienza di A Loving Act?
Ho dovuto immergermi in quelle immagini e riguardarmi da fuori. È stato quasi terapeutico riguardare i miei sbagli e accettare di metterli in scena. “A Loving Act” mi ha permesso di sperimentare su me stesso, di mettermi in discussione, demolendo tutte le certezze che avevo eradicato in me. Il Riccardo del film è un personaggio, non sono più io. Questo lavoro mi ha fatto intraprendere un percorso di psicoterapia, mi ha permesso di fare una profonda analisi sul modo di vivere le relazioni. Inoltre, questa è la prima volta che sto intraprendendo un percorso autoriale tutto mio, dove non cerco più di fare documentari, ma di raccontare storie. Dopo “A Loving Act” non sono più un regista, ma un ricercatore. Quello che ho vissuto è un esperimento e grazie al mio allontanamento dai canoni della regia classica, posso ora dire di raccontare la sola e cruda realtà.
Annunziato Gentiluomo
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