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“Questi Fantasmi”, di Eduardo De Filippo: al Teatro Duse Tommaso Bianchi, nel ricordo dell’eterno Maestro…

“Questi Fantasmi”, di Eduardo De Filippo: al Teatro Duse Tommaso Bianchi, nel ricordo dell’eterno Maestro…

In occasione del 30°anniversario dalla scomparsa di Eduardo De Filippo, approda al Teatro Duse di Bologna uno dei suoi testi più rappresentativi, Questi Fantasmi, per la regia di Tommaso Bianco, suo allievo ed erede. Ormai abituè al Duse, dove nelle passate stagioni è stato interprete e regista con Filumena Marturano e Natale a casa Cupiello,

In occasione del 30°Cristina_Tommaso-771x573anniversario dalla scomparsa di Eduardo De Filippo, approda al Teatro Duse di Bologna uno dei suoi testi più rappresentativi, Questi Fantasmi, per la regia di Tommaso Bianco, suo allievo ed erede.
Ormai abituè al Duse, dove nelle passate stagioni è stato interprete e regista con Filumena Marturano e Natale a casa Cupiello, l’attore partenopeo ha omaggiato il pubblico bolognese con una serata (8 novembre) dedicata a uno dei capolavori della drammaturgia del maestro napoletano: Questi Fantasmi (1945), la pièce che consacrò De Filippo sulla scena teatrale internazionale; la prima a essere rappresentata anche all’estero (Parigi, Théâtre de la Ville – Sarah Bernhardt), oltre che oggetto di ben due trasposizioni cinematografiche.
Tommaso Bianco, esuberante e visionario maestro teatrale itinerante, napoletano « ‘nto core» ma bolognese d’adozione, si esalta nella riproposizione di un’opera il cui sapore dolceamaro appare originalmente intergrato dall’esasperazione farsesca. Risultato, uno spettacolo (per la durata di due ore circa, intervallo compreso) che si scopre autentico nel suo essere l’appassionato tributo di un artista al suo maestro (dal grande Eduardo, Bianco ereditò la maschera di Pulcinella), e sincero: l’ennesima manifestazione di un amore, quello per il teatro, che non ha mai abbandonato Tommaso, nell’arco di una lunga carriera al fianco dei più celebri registi e uomini di teatro, da Dario Fo, Franco Zeffirelli, a Monicelli, Benigni, l’amico Ranieri. Un amore poi, che Tommaso è capace di infondere nel piccolo e coraggioso figliolo, “temerario” nell’esibirsi (al termine dello spettacolo) nell’esecuzione orale di ‘O rraù, la celebre poeia che il Maestro dedicò al prelibato condimento; quello napoletano, beninteso.

Prodotta da Ten Teatro e Scuola di Teatro Tommaso Bianco, la commedia vanta, oltre alla già citata regia di Bianco, la partecipazione di Elena Voli, Domenico Sgambato, Aristotele Bianco, Emma Ferrara, Daniele Sarnataro, Francesco Apuzzo, Antonio Masella, Beatrice Pini, Roberto Sparano, Fabio Delena, Michele Langella, Silvana Talamo; così come uTommaso_pulcinella-771x1133na produzione scenografica affidata a Franco Savignano, in collaborazione con gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Tipicamente pirandelliana nella tematica (il conflitto identitario tra realtà e illusione, essere e apparire), l’opera si snoda leggera e godibile attraverso le vicende di un piccole borghese napoletano, Pasquale Lojacono (alias Tommaso Bianco):
Secondo una credenza popolare, in un antico e disabitato palazzo napoletano si aggirerebbero dei fantasmi. Il proprietario dello stabile, per sfatare la leggenda, concede gratuitamente l’uso del palazzo a un modesto corista, Pasquale Lojacono, che vi si trasferisce con la moglie Maria…
È questo l’inizio della «commedia della vita» che, come di consueto per le pièce di De Filippo, si apre, «nasce» da un palcoscenico al buio. Fin dall’inzio appare chiara una cosa: i fantasmi ci sono, e fanno anche paura, tanta paura. Basti pensare al portiere della casa “infestata”, che di tutto fa per trattenere in sua compagnia, all’interno dell’appartamento, i due facchini incaricati di portare gli ultimi mobili prima dell’arrivo del nuovo inquilino. A mano a mano che lo spettacolo proseguirà poi, in un crescendo di risate e di ironia, più volte anche amara, fantasmi e persone si confonderanno: tutti tremendamente vivi, tutti tramendamente morti. E altri fantasmi prenderanno corpo, quelli piu spaventosi della tristezza, della solitudine, della miseria, .
Tra tutti dunque, riflettori puntati sul protagonista, tale Pasquale Lojacono: un Bianco che, «tra il fanciullesco e il diabolico», mai fa capire se la sua sia davvero ingenuità oppure subdola premeditazione; che si aggira per la casa accortamente, pur con una certa dose di sicurezza, perché i fantasmi «m’hanno preso in simpatia». Ci si chiede poi se Lojacono-Bianchi non si accorga davvero della truffa che sta avendo luogo alle sue spalle, della tresca amorosa tra la moglie e il (fantasma?) Alfredo. Persino il vicino, l’invisibile professor Santanna, presenza muta ma fondamentale, con il quale intrattiene un rapporto a distanza dal balconcino di casa, cerca di avvisarlo, denunciando che nella casa succedono “cose strane”.
Insomma, Lojacono-Bianchi come IMG_20141109_013631paradigma dell’uomo moderno, teatrale exemplum dell’infelice condizione umana. Noi, che preferiamo non vedere la realtà, per nasconderci in un’illusione in cui tutto va bene, una leibniziana fede nel «migliore dei mondi possibili». Noi che vogliamo credere a chi promette che tutto andrà bene, a una speranza senza fondamento. Noi, infine, che preferiamo credere ai fantasmi, senza accorgerci dei fantasmi che noi stessi costantemente diventiamo. Lojacono, alla fine della piéce, occupato a contare il denaro lasciato da Alfredo-fantasma per l’ultima volta, scoppierà in una smodata e folle risata, tanto (troppo) simile ad un urlo di dolore: quasi volesse ammettere a se stesso di conoscere la provenienza di quel denaro. Lo sa, certo, ma non può fare a meno di illudersi, di sognare. La realtà è troppo meschina, troppo crudele.
È dunque l’insostenibile fragilità dell’essere ad animare il teatro del grande Maestro; ed è questa che l’erede Tommaso ha voluto porre al centro del suo lavoro. È l’ipocrita forma che ci diamo, la maschera che ci sentiamo costretti a indossare. La paura di guardarci allo specchio.

L’uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto. L’uomo che non può essere “agli altri ed a se stesso amico”: l’inetto.

L’elogio dell’inettitudine, della “malattia“, della senilità. Perchè i fantasmi non esistono… «i fantasmi siamo noi!».

Giuseppe Parasporo

[Fonti delle immagini: www.teatrodusebologna.it; www.identitainsorgenti.com]

[Fonte del video: www.youtube.com]

 

 

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