Mercoledì 16 agosto, presso il Palatium Romano di Quote San Francesco a Portigliola (RC), all’interno della programmazione del Festival del Teatro Classico Tra Mito e Storia, abbiamo potuto assistere a una singolare riflessione sull’identità e sull’alterità, grazie a La padrona di casa, diretto da Bernardo Migliaccio Spina, che reinterpreta The Room di Harold Pinter. La singolare scenografia è basata su un groviglio di tubature e grondaie, dal sapore vagamente ispirato al post-moderno industriale con un solo lato da cui è possibile fare breccia e accedere nella casa dei signori Had. Un luogo atemporale in cui spiccano una sedia sulla sinistra e una sdraio sulla destra, entrambe bianche, e…
La singolare scenografia è basata su un
groviglio di tubature e grondaie, dal sapore vagamente ispirato al post-moderno
industriale con un solo lato da cui è possibile fare breccia e accedere nella
casa dei signori Had. Un luogo atemporale in cui spiccano una sedia sulla
sinistra e una sdraio sulla destra, entrambe bianche, e un trono al centro, una
stanza dove si consumano dialoghi frammentari, di non immediata comprensione,
un crocevia di scambi dove i protagonisti cercano di capire e farci capire chi
sono. Pare il gioco delle arterie di un cuore che difficilmente entra in empatia
con gli altri, che non riesce ad accogliere lo straniero, l’altro da sé, il
diverso di turno, che si accanisce per cibarsi di un panino che non vuole
condividere, illudendosi invece di farlo e di essere servizievole invitando a
bere del te. Un ritmo irregolare, schizofrenico come quanto avviene in scena,
allietato da musiche assolutamente pertinenti che danno profondità, riempiono e
a volte stemperano ciò lo spettatore osserva.
Una regia che cura nel dettaglio i movimenti
scenici, che esacerba l’incomunicabilità tra gli attori e che sicuramente
caratterizza in modo volutamente esagerato i singoli personaggi.
Cinque attori assolutamente all’altezza del ruolo
e tutti nella parte con consapevolezza, quasi sia per loro impossibile
distinguere chi sono da chi rappresentano.
Molto accorata l’interpretazione di Giulia
Palmisano, sempre presente, attenta in ogni singolare
manifestazione del suo personaggio, la signora Had, attorno a cui Migliaccio
Spina decide di far ruotare tutto. Offre con compostezza tutte le sfumature di
chi non vuole essere scoperta e di chi necessita di tenere tutto sotto
controllo.
Francesco Origlia è un brillante Signor Kid. Manifesta la confusione mentale e la difficoltà di entrare in relazione in modo assolutamente puntuale, non perdendo mai di vista la tensione drammatica.
Anche Giuseppe Sgambellone e Martina Scordino riescono a ben rendere i loro personaggi: il contenuto che offrono fa da collante per il finale e da loro emerge con forza la difficoltà anche di una coppia di poter confrontarsi con l’altro. Il loro è un gioco di attacchi e difese reciproche, mettono in atto un guerra che già in partenza non avrà vincitore.
E in conclusione Vincenzo Muià, in modo asciutto e risoluto, offre indicazioni per poter
acclarare il dramma della realtà sociale contemporanea e dei problemi esistenziali
dell’uomo. La sua stessa cecità è un indicatore che ci aiuta a focalizzare l’osservazione
dello spettatore sul microcosmo asfittico pensato
da Pinter.
Circa cinquanta minuti di inquietudini in cui i
livelli di interpretazione personali possono collassare e ci aprono
interrogativi a cui non possiamo rispondere: che fine ha fatto Bert? Il
personaggio cieco e anziano è il padre? È un parente? È l’inconscio della
protagonista? È la sua coscienza? È il suo passato? Chiunque o qualunque cosa
sia a un certo punto la costringe a definire la propria identità, la smaschera
e davanti a una dolce tale violenza lei non può far altro che reprimerlo o
sopprimerlo.
In sintesi uno spettacolo interessante, dall’alto spessore psicologico, ben confezionato, che obbliga alla riflessione e che non lascia indifferenti.