Se Apollo ti sputa in bocca, questo significa: tu hai il dono di predire il futuro, ma nessuno ti crederà. È la voce luttuosa di Cassandra ad inaugurare la notte delle streghe bolognese. Due serate (31 ottobre e 2 novembre) al Teatro Comunale di via Largo Respighi per il compositore svizzero Micheal Jarrell e la
Se Apollo ti sputa in bocca, questo significa: tu hai il dono di predire il futuro, ma nessuno ti crederà.
È la voce luttuosa di Cassandra ad inaugurare la notte delle streghe bolognese. Due serate (31 ottobre e 2 novembre) al Teatro Comunale di via Largo Respighi per il compositore svizzero Micheal Jarrell e la sua Cassandra: un’ “opera senza cantanti” in sessantacinque minuti, dal racconto Kassandra di Christa Wolf (nella versione italiana di Anita Raja dall’adattamento di Gerhard Wolf), divenuta ormai un classico del teatro contemporaneo, avendo conosciuto, in quasi vent’anni di vita, riprese in tutto il mondo e in varie lingue.
Grande successo di pubblico, Cassandra è un monodramma per voce recitante, ensemble strumentale ed elettronica, composto nel 1994 sul celebre testo della Wolf (1929-2011) dallo svizzero Micheal Jarrell (8 ottobre 1958, Ginevra), pluripremiato composer, che proprio in seguito alla prima assoluta dello spettacolo , datata 1994 al Théâtre du Châtelet parigino, è protagonista di un successo internazionale che lo porta subito in Russia, Inghilterra, Germania, Italia. Il genere, poi, non è tra i più semplici da definire.
Un’eccellente Anna Clementi, italo-svedese “attrice della voce”(figlia del compositore Aldo), diretta dalla poliedrica Pamela Hunter, questa volta in veste di regista, è Cassandra, la figlia del re troiano Priamo e della regina Ecuba. La piéce narra la nota storia di un’outsider: il dramma della solitudine di chi, condannato dal dio a non esser mai creduto, profetizza la caduta della propria città natale, senza che nessuno l’ascolti. Cassandra, inascoltata profetessa, personaggio troppo umano per il troppo giusto universo arcaico eschileo, maledetta dal dio ma in lotta sino alla fine per la propria autonomia, è la protagonista di una pièce che chiede di essere ascoltata, di essere creduta.
Impossibile non farlo. Del resto lo fu anche per l’autrice tedesca, che, agli inizi degli anni Ottanta, in piena Guerra Fredda, trova nella troiana un archetipo più che mai adatto a far incontrare mythos e storia, le antiche favole dei poeti con la condizione arcaica e patriarcale del suo paese. Finalmente insomma, Cassandra trova nella Wolf, così come in Jarrell, la fede di cui, sin da ragazza, Apollo l’aveva privata: la fede di chi, tremila anni dopo, crede a ogni sua parola, ammettendo che “così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto” (C. Wolf in “Premesse a Cassandra”).
Jarrell allora, così come Apollo, possiede Cassandra attraverso la parola. Come la Wolf poi, non ci trasferisce al centro della tragedia della rocca di Priamo, non propone l’eroina greca con un’utopica speranza di cambiamento. Il dramma inizia dalla fine: o meglio, è il racconto di una fine, di “una lunga coda”. Rispettoso dell’impostazione wolfiana, che modella il monologo dell’eroina su uno stream of consciousness di joyceiana memoria, il compositore svizzero ha il coraggio di ammettere che “a fronte della solitudine di una donna in attesa della morte, appare ridicolo farla cantare”. Umile nel piegarsi all’umanità di Cassandra dunque, Jarrell vuole fare qualcosa di più. E ci riesce.
Si decide, allora, per il termine monodramma, che qualifica peraltro anche Erwantung di Shonberg. Ma un monodramma che sia “non cantato”. Il che non vuole affatto significare che si tratti di semplice “musica di scena”, sottofondo musicale all’azione drammatica. Beninteso, “è il testo che si adatta alla musica, e non l’inverso” – si preoccupa di precisare il compositore ginevrino. La musica, insomma, influisce sulla parlata, sulla parola, sui tempi della recitazione senz’altro musicale della Clementi, che il maestro bulgaro Rossan Gergov, stella emergente del panorama direttoriale internazionale, dirige come uno dei suoi violini. Una sfida impegnativa, che la Clementi coraggiosamente vince: sincera ma potente, si appella alla varietà psicologica di Euripide piuttosto che al monolitismo Eschilo (“il poeta maschio – secondo la Wolf – che vuole vedere come possono diventare le donne quando sono allontanate dalla sfera pubblica”). Impegnativa poi, soprattutto per quanto richiesto dallo svizzero: una parlata molto rapida, che percorra tutti i gradi della musica, senza però mai perdere in chiarezza. Obiettivo, plasmare, intrecciare “nuvole di parole”.
Si è detto di come l’opera sia la storia di un tramonto, un crepuscolo fatto di pensieri che si riuniscono spontaneamente. Ecco, Cassandra vuol fare proprio questo: sperimentare immagini. Le parole sono troppo lente per star dietro ai pensieri. Momenti del pensiero si concretano così in combinazioni di video e riprese live, in lunghe sequenze flashback fatte di episodi dalla storia mitica e da quella contemporanea (su tutti emergono i dipinti del simbolista belga Paul Delvaux).
Un’opera apparentemente senza canto dunque, che però intreccia parole nel tessuto del tempo musicale. Il tutto sublimato dalla geniale interpretazione registica di Pamela Hunter: una Hunter che più di tutti sembra aver compreso la Wolf; lei convinta che “in ultimo (nella mia vita) ci sarà un’immagine, non una parola. Prima delle immagini, le parole muoiono…”.Pollici in su e tanti applausi per la prova del maestro da Ginevra al Teatro Comunale di Bologna. Molto più di un semplice adattamento. Oltrepassando i confini dell’opera, la composizione risente della lezione teatrale brechtiana, del suo teatro politico, cui la Wolf è oltre ogni misura vicina. È la possibilità di abolire la distanza che separa il mito dall’oggi, dal concreto che ci incontra, ci tocca, ci cambia.
In questo consiste la marcia in più di Cassandra, nel rendere musicalmente quella necessità di violenza metafisica, di urlo artaudiano che la Wolf mette in evidenza. È soprattutto la necessità superiore di farlo per restare cosciente e testimone, unita a quella di servirsi di parole: l’unica memoria capace di condurre all’inevitabile, a “discendere nella morte”.
Troia è distrutta, Cassandra catturata: i Greci a cavallo hanno vinto. Prigioniera di guerra, la profetessa continua a parlare. Coraggiosa come lei allora, la Wolf – nouvelle Cassandra – parla; e la Valenti le dà voce.
Non c’è più canto però. Ciò che rimane è solo voce, solo recitazione.
“Contro un’epoca che ha bisogno di eroi non c’è nulla da fare, lo sapevi bene quanto me.”
Giuseppe Parasporo
[Fonti delle immagini: www.bolognawelcome.it (copertina); www.ravennatoday.it; www.corriereromagna.it; www.apemusicale.com]
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